LEGGENDE AL SAPORE DI FRUTTA

Mentre si parla della necessità
incombente di recuperare il rapporto con la scienza sia sul fronte della formazione
che su quello della comunicazione, ecco la puntuale epifania digitale di
qualche nostalgico sermone parolibero in difesa del “tempo che fu” e che
intreccia qualche verità, mezze verità e bugie colossali in un ordito che
restituisce arabeschi di grottesco. L’importante è fare clamore, a costo di
lasciare la mente a maggese.
Questa volta tocca alla FRUTTA
subire una sassaiola di polpettoni marinati nel mare delle patacche.
Ne parlo con Donatello Sandroni, laureato in scienze agrarie (non chiamatelo
agronomo, però), ex ricercatore presso il gruppo di eco-tossicologia
dell’Università degli Studi di Milano, divulgatore scientifico, giornalista
pubblicista e scrittore.
L’intervista obnubila i
pittoreschi luoghi comuni sulla frutta, smonta punto per punto un certo
repertorio inchiodato a vecchie credenze e ci dà lo spunto per andare avanti,
senza guardare indietro salmodiando cori mesti e dolorosi
D: Ciao Donatello, in rete
girano vorticosamente messaggi di dubbio valore scientifico volti solo a fare
inutili terrorismi schiacciando la complessità sotto la pressa della
semplificazione. In questa folta galassia pseudoscientifica non potevano
mancare le leggende sulla FRUTTA. Ho pescato nel web un post che riassume gli
stereotipi sul tema. Si dice, ad esempio, che “la frutta non ha sapore. Il motivo? La frutta nei mercati deve durare
diversi giorni e quindi spesso viene fatto un passaggio in acqua gelida per
bloccare la maturazione. Questi frutti senza sapore saranno privi di polifenoli
e vitamine.”
R: Dire che la frutta dei moderni mercati è “priva”
di polifenoli e vitamine è una forzatura dialettica decisamente farlocca,
tipica della demagogia disinformativa di oggi. Anzi, ne contiene eccome di
sostanze preziose, perché oltre ad acqua e agrofarmaci diamo alle piante
fertilizzanti inorganici e organici, fra cui molti aminoacidici per aspersione
fogliare. Questi sostengono le piante per assicurare il massimo sviluppo dei
frutti anche in termini qualitativi. Inoltre, ne regoliamo la produttività
effettuando diradamenti dei frutti affinché ne restino pochi, ma buoni. La
sapienza del tecnico di campo è proprio nel bilanciare fra loro gli elementi
della produttività. Se per esempio irrigo molto e nutro poco, magari
limitandomi a fornire azoto e pochi altri macro-elementi, la pianta apparirà
rigogliosa e verdissima, ma i frutti finiranno con l’essere acquosi e di poca
sostanza. Per giunta, saranno anche più esposti agli attacchi di patogeni e
malattie. Resta però un problema, anche a patto di aver lavorato bene in
campagna: la catena distributiva lunga. Se i frutti san di poco e non
raggiungono il massimo dei contenuti di sostanze utili non è per la “doccia
fredda”, ma per il fatto che raccogliamo i frutti prima che siano completamente
maturi, altrimenti di pesche, albicocche eccetera non ne arriverebbero molte
nei nostri piatti. Un po' acerbe le polpe sono più dure e sopportano meglio il lungo
tragitto fra celle frigorifere e supermercati. Il bagno in acqua fredda viene effettuato per esempio sulle mele,
ma per motivi diversi. Se si visitano i siti di lavorazione di Melinda, in Val
di Non, si vedono migliaia di mele galleggiare in grandi vasconi di acqua, la
quale non solo le lava, ma le trasporta anche dolcemente alle fasi successive
di cernita, bollinatura e confezionamento. Ovviamente, il consumatore ricorda
il sapore della pesca dell’albero del nonno in campagna, staccata a piena
maturazione e morsa ancora tiepida di sole. Per forza la frutta dei
supermercati gli pare sciapa! Ma sono le logiche della società moderna: la
frutta viene prodotta in campagna e deve arrivare integra nelle città. E magari
restare nei frigoriferi dei consumatori anche per giorni, perché la spesa mica
possiamo farla tutti i giorni, tranne pochi privilegiati. Tutto non si può
avere…

D: Delle MELE ci dicono che “le troviamo in forma splendente tutto
l’anno, ma la loro stagione è solo da luglio a settembre, dopodiché vengono
spesso immerse in un bagno di cera che impedisce l’evaporazione di liquidi.
Andranno poi in frigo a 8°C
(milioni di frigo in tutta Italia che consumeranno corrente elettrica come
migliaia di Eurostar). Il tutto permetterà la permanenza nei mercati anche per
due anni restituendo un frutto che sarà solo una boccia informe di polpa
dolciastra senza alcuna sostanza vitale”
R: L’espressione “senza alcuna sostanza
vitale” è anch’essa una forzatura da drammaturghi della disinformazione.
Perfino una mela quasi marcia contiene ancora degli elementi utili alla
nutrizione. Ovvio che più un frutto viene conservato, peggio è. Ma qui torniamo
alla logica del punto precedente: non è colpa degli agricoltori se la
popolazione italiana di oggi per il 97% non si occupa più di agricoltura e la
maggior parte di essa vive nelle città. Le loro richieste di frutta e verdura
sono 365 giorni all’anno e spesso chiedono prodotti contro-stagione. I limoni
li vogliono anche a luglio, ma in quel periodo di prodotto nazionale quasi non
ce n’è. Ma, ancora, ricordano l’albero di limoni nel giardino dello zio, il
quale presenta frutti anche d’estate, quindi si indignano nel trovare limoni
sudafricani nei supermercati. In realtà, se non importassimo agrumi dal sud del
Mondo, in estate ne avremmo pochissimi dei nostri. Quando da noi è inverno,
nell’emisfero australe è estate. E viceversa. Per questo le pere che mangiamo a
maggio sono argentine: perché mentre loro sono alla fine del periodo
produttivo, le nostre sono ancora sugli alberi, piccole come noci. Circa il
consumo di corrente, è vero. La frigoconservazione assorbe moltissima energia. Non
a caso si sono moltiplicati studi che dimostrano come importare l'ortofrutta da
Sudafrica o Sudamerica consumi meno energia che conservare la nostra per molti
mesi dopo la raccolta. Peccato che i nostri amici nostalgici sobbalzino appunto
all'idea di mangiare pere argentine a maggio, perché è probabile siano tra i
sostenitori del prodotto italiano 100%. Ovviamente non a km zero, visto che le
mele le produciamo a Nord e le arance a Sud. Tutti però vogliono mangiare mele
e arance. Quindi aridaje con i camion frigoriferi su e giù per l’Italia. Una
mossa a favore della riduzione dei consumi energetici l’ha infine compiuta la
già citata Melinda (1), andando a riadattare grandi superfici
sotterranee delle miniere di Rio Maggiore. Là sotto ci sono già condizioni termiche
favorevoli e la climatizzazione risulta quindi poco dispendiosa in termini
energetici. Il Mondo, detta in altri termini, va avanti. I demagoghi
dell’allarmismo se ne facciano una ragione.
(1) http://www.melinda.it/press-area/il-progetto-ipogeo-di-melinda.html

D: Hai
qualcosa da aggiungere sui “bagni di cera”?
R: Quella delle
cere tossiche è una delle tante bufale allarmistiche lanciate in rete grazie a
filmati da certi laureati alla Facoltà di YouTubbologia. L’allarme venne
generato da una ripresa in cui un soggetto grattava una mela ricavandone una
sostanza bianca, alla quale diede poi fuoco asserendo di sentire odore di
paraffina bruciata. In realtà, la frutta produce naturalmente delle cere.
Pensate a quella delle susine. Anche le mele, a seconda delle varietà, sono in
grado di risultare belle lucide per via naturale. Dirò di più: negli Anni 80 e
primi 90 si usava nei meleti uno specifico insetticida, il dimetoato, perché oltre
ad ammazzare i parassiti stimolava proprio la produzione di cere naturali dei
frutti. Dava cioè alle mele il cosiddetto “effetto cosmetico”. Oggi le mele
possono sì essere trattate con sostanze protettive nelle centrali di lavorazione,
ma è tutto conforme alle Leggi e non rappresenta alcun rischio per il
consumatore. Le mele convenzionali, non quelle biologiche, dopo il lavaggio
possono infatti essere cerate da un’apposita macchina ceratrice al fine di
proteggerle e assicurarne una prolungata conservabilità. Circa la nocività di
questo trattamento, è bene ribadire che questo rivestimento protettivo altro
non è che una gommalacca naturale, la quale viene solubilizzata in alcool per poi
essere irrorata. L’alcol infine evapora e lascia la buccia protetta dalla
gommalacca in modo uniforme. Non solo tale trattamento non comporta problema
alcuno per la salute, ma è per giunta conforme alle più recenti normative
europee e nazionali. Inoltre, la cera può essere rimossa con una banale
strofinatura dopo il lavaggio. Dirò di più. Se sulla buccia vi erano residui di
agrofarmaci, è anche possibile che i più lipofili siano migrati dalla buccia
alla cera durante la conservazione. Rimuovendo quest’ultima si rimuovono perciò
anche tali residui. Quindi ben venga la ceratura, eccome.
Bufale sulla
cera sulle mele:
1) http://www.ilfattoalimentare.it/mele-cerate-video-bufala.html
2) http://www.bufale.net/home/allarmismo-e-disinformazione-quando-le-mele-sono-troppo-lucide-per-essere-veramente-bio-bufale-net/

D: Gli aedi del Si stava meglio quando si stava peggio proseguono salmodiando: “E il baco Gigi ospite delle mele della
nonna? Povero Gigi, non esiste più!.
Spesso i meli ricevono 20 trattamenti
l’anno di fitofarmaci che distruggono qualsiasi parassita o vermiciattolo. Non
solo: per avere mele grosse, gli alberi vengono annaffiati tutta l’estate
(quando invece l’albero dovrebbe riposare). L’albero innaffiato crea nuovi
germogli molto ambiti dai pidocchi. Ma i pidocchi non sono graditi e via con i
pesticidi.”
R: Il baco Gigetto, conosciuto dagli
agronomi col suo vero nome, ovvero Carpocapsa
o Cydia pomonella, è quello che
da solo si può pappare più del 50% dei frutti se non si usano insetticidi. Nel
1998, anno particolarmente caldo e favorevole, le province di Modena, Ferrara e
Bologna subirono pesanti attacchi di questo insetto, il quale attacca anche le
pere. Alcuni campi avevano già perdite del 15% a giugno, dopo la prima
generazione del parassita. Il danno risultò pressoché totale alla raccolta. Una
perdita gravissima di prodotto per i mercati e di reddito per le aziende
agricole. Eppure, i pereti erano stati trattati con insetticidi. Perché quello
che i cittadini non capiscono è che là fuori, nei campi, c’è una lotta
ferocissima fra gli agronomi e i parassiti che vogliono mangiare la medesima
frutta che stiamo coltivando per mangiarcela noi. Come disse Rambo in uno dei
film della serie: “Noi eravamo bravi ad ammazzare, ma loro erano troppi”. Ecco,
gli agricoltori e gli agronomi sono l’esercito che difende il nostro cibo dai
nemici. Non nella jungla, ma nei frutteti. Certo che si usano anche venti
trattamenti all’anno sulle mele: devono essere protette da marzo a settembre
contro una miriade di patologie e insetti diversi. Assalti continui, all’arma
bianca, per penetrare nei frutti e farli sparire dagli alberi. E a differenza
delle guerre vere, nei campi coltivati non esistono tregue o armistizi. La
Natura attacca di continuo e tocca a noi respingerla senza posa. Se la metà
degli Italiani rinuncia a mele e pere il problema non si pone più: smettiamo di
trattare la frutta. Chi inizia a digiunare? Quanto all'irrigazione è stata poi
detta forse la stupidaggine più grossa: è proprio d'estate che si irrigano le
colture, le quali altrimenti non è che "riposino" (ma da dove viene una
facezia simile? Ma ce l’hanno un giardino col prato?), bensì vanno in stress
idrico e perdono foglie e frutti. A volte muoiono. Certi commentatori del web mi
sembrano un po' i vecchi accompagnatori di quando correvo in bicicletta negli
Anni 80: a luglio, in salita, con 35 gradi, ci dicevano "Non bere che se
no sudi!". Un controsenso che fa a pugni con le regole base della
fisiologia, vegetale o umana che sia.

D: Gli untori dell’apocalisse agricola
ammoniscono: “alla fine, l’agricoltura
moderna ci presenta il conto e 1) avremo nel frutto tracce di questi
farmaci 2) un albero trattato non ha
nessun bisogno di produrre fenoli (veleno per i pidocchi, sostanze antitumorali
per noi) e quindi alla fine troveremo una mela che di salutare ha poco”
R: Certo che c’è
un conto da pagare. Illuso chi pensa non ci sia o che ci siano modi perché non
sia più così. Anche l’ecologista più sfegatato usa la macchina, il
riscaldamento, la corrente per alimentare il computer, da cui poi lancia magari
in rete le vaticinazioni di Armageddon incipienti. Consuma energia, produce
anidride carbonica. Ma mica smette. Ecco, ogni attività umana ha un costo di tipo
ambientale. Lo sforzo di chi fa, a differenza di chi parla, è proprio quello di
rendere sempre più sostenibili i processi produttivi, diminuendo gli input
chimici ed energetici. Un esempio viene dai motori: ma lo sa la gente che ci
vogliono più di 90 automobili di oggi per inquinare quanto una sola macchina
degli Anni 70? La stessa cosa in agricoltura. Fino ai primi Anni 90 potevamo
contare su circa mille sostanze attive differenti. Dopo la Revisione europea
degli agrofarmaci ne sono sopravvissute solo 300. E dico “solo” perché chi non
è del settore non può immaginare quali effetti negativi tale selezione abbia
avuto nei campi. Eliminando diversi “veterani” della fitoiatria abbiamo sì
spostato le scelte su molecole meno impattanti e meno tossiche, ma abbiamo
anche fatto un favore a malerbe, funghi e insetti, i quali hanno infatti
moltiplicato i fenomeni di resistenza ai prodotti. In altre parole, l’esercito
citato dianzi è stato parzialmente disarmato e oggi se ne paga lo scotto. Solo
che dalle città non si vede che razza di corpo a corpo si ingaggi continuamente
contro i parassiti in campagna, il tutto per dare proprio alle città i
necessari approvvigionamenti alimentari. Il problema dei residui, poi, è di
fatto ingigantito rispetto alla realtà. Primo: per dare da mangiare a un
singolo Italiano vengono usati nei campi 6-700 grammi di sostanze
attive all’anno, in tutta Italia. Avete idea della diluizione ambientale che
avviene? Sulla frutta vi sono sì tracce di prodotti, per forza, ma sono
estremamente basse. Se si considera l’effettiva presenza di agrofarmaci su
frutta e verdura, rilevata nelle campagne di monitoraggio residui, si può
stimare in meno di 200 milligrammi la quantità di residui presenti sui vegetali
che portiamo a casa con la spesa, annualmente intendo. Poi c’è la sbucciatura,
il lavaggio, la cottura. Se ingoiamo poche decine di milligrammi all’anno direi
che è già tanto. Per dare un termine di paragone, in un solo bicchiere di vino
ci sono circa 20 grammi
di alcol, una sostanza posta dallo Iarc in Gruppo 1, ovvero quello dei
sicuramente cancerogeni. Il primo agrofarmaco è nel Gruppo 2A, al fianco delle
bistecche, tanto per dire. È cioè meglio dell’alcol che beviamo. In altre
parole, con un solo bicchiere di vino introduciamo nel nostro corpo una
molecola davvero pericolosa, l’alcol appunto, in ragione di circa mille volte tanto
ciò che ingeriamo in un anno come residui. Per dirla in altro modo, dovremmo
vivere circa mille anni per ingerire le sostanze nocive che ingoiamo con un
solo bicchiere di vino. Da domani, tutti astemi?

D: Si passa alla fase propositiva con un
suggerimento di formidabile fattura: “Cercare
mele antiche talmente robuste da non richiedere trattamenti con fitofarmaci
(Mele Ruggine, Mele Ghiacciole, Mele Calville, Mele Ontano, Mele Annurche e
altre)”
R: Le mele e la frutta antica in genere
vengono attaccate meno da malattie e insetti, è vero, (meno, appunto, mica
affatto: perché il Gigetto si mangia anche loro eccome). Ciò perché hanno una
buccia durissima e una polpa spesso aspra. Tradotto, al 99% dei consumatori farebbe
schifo. Ecco perché la ricerca ha messo a punto varietà di frutta sempre più
succose, dolci, croccanti e via discorrendo. Su web circolano immagini di ciò
che era la frutta e la verdura ancestrale, quella mangiata dai nostri
ascendenti ominidi. Sfido il cittadino di oggi a mangiarla. Inoltre, manca
spesso la stima delle dimensioni di cui stiamo parlando. Le varietà antiche
spesso producevano poco e male. La visione dei tempi passati quali Eden cui
tornare è cioè avulsa da qualsiasi contatto con la realtà. Siamo in 60 milioni
in Italia: con le varietà antiche la maggior parte di questi finirebbero col
non mangiare. Vale per il grano, per il riso, per i pomodori. Per tutto. La
situazione agricola attuale è frutto della crescita demografica che ha
obbligato a moltiplicare le produzioni. Nel 1920 eravamo 38 milioni, avevamo
più di 22 milioni di ettari coltivati e il 58% della popolazione attiva
lavorava nei campi. Oggi siamo 60 milioni, ci sono rimasti solo 13 milioni di
ettari coltivabili e nei campi c’è meno del 3% a lavorare. Più gente, meno
terra e meno agricoltori a produrre cibo per tutti: illudersi di poter tornare
indietro è quindi sogno fallace, a meno di eliminare metà dell’attuale
popolazione italiana. Se qualcuno si propone come volontario, faccia pure…

D: Caso UVA. Per guadagnare consensi
intestinali si dice che “anche la vite ha
bisogno di fitofarmaci in quantità, con un’unica eccezione: l’uva fragola che
non richiede (miracolo) nessun trattamento. Ideale quindi per i bambini”
R: Quanto all'uva fragola, è vero: risulta immune a
certe malattie e per questo non necessita di trattamenti specifici. Basta
quindi rinunciare a ogni altro tipo di vino e all'uva da tavola e siamo a
posto? Ve lo immaginate Carlo Petrini di Slow Food a dirgli di bere solo
fragolino anziché Nebbiolo? Prima consiglio di fare un’assicurazione sulla
vita, perché perfino un uomo pacifico come lui potrebbe perdere le staffe
davanti a una tale sciocchezza… L’uva fragola è sì una varietà simpatica e
anche gustosa, ma prefigurare un Mondo coltivato solo con questa varietà
sconfina oltre la soglia del ridicolo. Peraltro, si blatera tanto di
biodiversità e poi si vagheggia una monocoltura viticola? Un “non-sense” che si
descrive da solo. C’è un nuovo fronte di ricerca, questo sì razionale e
promettente, che va incontro all’esigenza di ridurre la chimica nei campi. Le
nuove varietà di vite cisgeniche
contengono proprio i geni della resistenza a diverse malattie. Sono geni presi
da varietà selvatiche di vite e trasferite nelle attuali varietà coltivate.
Quelle buone, tanto per intendersi. Peronospora
e oidio su di esse pare non riescano
ad attaccare. Io resto scettico sul lungo periodo, perché vi sono patologie
secondarie che smettendo di trattare contro peronospora
e oidio diverranno primarie,
richiedendo la ripresa dei trattamenti. Però alla ricerca e alla tecnologia è
sempre sbagliato sbattere la porta in faccia. Quindi ben vengano le nuove
varietà frutto di biotecnologie. Non a caso molti ambientalisti stanno già
strillando all'uva Frankenstein. Perché gli agrofarmaci, no, la genetica no… Insomma,
certi personaggi sono la dimostrazione vivente che per fare rinsavire politica,
media e opinione pubblica ci vorrebbe un po' di 1850, quando la peronospora delle patate distrusse i
raccolti (i pesticidi purtroppo non esistevano ancora) e la carestia uccise un
milione di Europei e causò le migrazioni epocali verso gli Stati Uniti. Ecco,
magari dopo di ciò certe sequele di scempiaggini non le leggeremmo più.

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