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CRUDO DISAGIO Parte II NELL’ARTICOLO PRECEDENTE… Tra le retrive mode alimentari che vanno salmodiando la nostalgia di un passato “bello e buono” ridotto a diorama imbalsamato mai esistito, abbiamo analizzato IL CRUDISMO. “Guai a pentole, padelle e forni!” è il fegatoso monito di chi sogna un ritorno al passato remoto alimentare, quando ancora l’uomo non aveva domesticato il fuoco per cuocere i cibi. L’imperativo salva-vita sarebbe quello di abbandonare la cottura. “Gli alimenti cotti sono alimenti morti. Il cibo cotto è la più grande maledizione umana”, strepita uno dei guru del crudismo. Dichiarazioni giustificate solo da generica e biliosa ostilità verso la modernità e la tecnologia. Senza alcun supporto argomentativo che non sia occluso dalla cappa dell’ideologia nostalgica. Il negazionismo crudista nega tout court il ruolo cruciale accreditato dalla scienza alla cottura nell’evoluzione e nell’alimentazione in generale. Eppure cuocere i cibi ha rappresentato una pietra miliare della nostra carriera evolutiva: immersi in una natura tutt’altro che “buona, giusta e bella” e nutrizionalmente micragnosa la cottura ha reso i cibi più teneri, appetibili e soprattutto, ci ha permesso di estrarre molta più energia, dalla carne in particolare. La storia evolutiva del genere homo ha infatti premiato non solo chi si adattava meglio alle disponibilità alimentari contingenti (dunque gli onnivori, mentre lo strettamente vegetariano paranthropus Robustus ci ha abbandonati 1 milione di anni fa circa), ma anche chi ebbe l’intuizione di domare il fuoco a scopo alimentare. La cottura dei cibi, in primis delle carni, ha affrancato l’uomo dai lunghissimi tempi della masticazione dei vegetali crudi e ha permesso che dai cibi ammorbiditi si potesse estrarre tanta più energia. Carburante sequestrato agli intestini (ridotti di dimensioni perché ora non erano più necessari lunghi processi digestivi) a tutto vantaggio del cervello. E da questo felice abbrivio il “cuoco intelligente” ha intrapreso un’incredibile carriera evolutiva. Di cui la cottura ha sempre segnato il passo. A partire da due milioni di anni fa.
CRUDISMO:
DALLE FORESTE AI SALOTTI…?
Sempre ai giorni nostri, fuori dalle foreste, ma tra mura di salotti piombati in arredi di design morbido, minimal o dinamico, si diffonde con toni religiosi lo spartito disarmonico del crudismo. Una moda punteggiata da errori gravi e grevi. Come dimostrano gli studi che hanno fatto luce su uno dei tanti lati oscuri a cui conduce questa moda alimentare: la denutrizione e l’infertilità femminile. DONNE
CRUDISTE IN AMBASCE Sono stati compiuti soltanto tre studi sul peso corporeo dei crudisti e tutti hanno evidenziato che si tratta di soggetti particolarmente magri. Troppo magri. L’indagine più estensiva è il GIESSEN RAW FOOD STUDY, condotto in Germania dalla nutrizionista Corinna Koebnick e colleghi che -tramite questionari- hanno monitorato la salute di 513 soggetti che seguivano una dieta al 70-100% di cibi crudi. Ebbene, il crudismo fa dimagrire, certo. Ma fino a scavalcare il limite del patologico. Tant’è che tra quanti seguivano una dieta esclusivamente crudista (31%) il peso corporeo di quasi un terzo di loro suggeriva una DEFICIENZA ENERGETICA CRONICA. Inoltre più cibo crudo mangiavano le donne più basso era il loro BMI (Indice di Massa Corporea) e più probabilità avevano di andare incontro a un’amenorrea parziale o totale. Almeno metà delle donne tedesche crudiste ricavava così poca energia da quella dieta da RISULTARE FISIOLOGICAMENTE INCAPACE DI AVERE BAMBINI. Se applicato su scala globale, il crudismo potrebbe avere per noi lo stesso effetto del fatale meteorite per i dinosauri. Solo che a spargersi, stavolta, non sarebbe polvere di stelle. Ma polvere di grottesco. ASCETISMO
PELOSO I crudisti tedeschi avevano anche il vantaggio di poter contare su oli ottenuti grazie a processi industriali e facilmente reperibili. Il team di Koebnick scoprì che circa il 30% dell’introito calorico dei soggetti era costituito proprio da quei lipidi: una preziosa fonte energetica che non sarebbe stata disponibile ai cacciatori-raccoglitori I
soggetti dello studio di Giessen
godevano di altri vantaggi:
nessuna attività fisica particolarmente intensa, a
differenza delle donne cacciatrici-raccoglitrici.
Le donne boscimane del Kalahari ad
esempio la sera tornano al campo totalmente esauste, perché
la maggior parte
del tempo non hanno fatto altro che chinarsi, scavare, camminare e
portare
grossi carichi di cibo, legna e bambini. Anche nelle popolazioni che
ricorrono
alla cottura questi livelli di esercizio fisico sono sufficientemente
elevati
da interferire con la funzionalità riproduttiva. Ipotizzando
che la vita dei
nostri crudisti tedeschi fosse stata resa più difficile da
un’attività
quotidiana di procacciamento di cibo nella foresta, il loro consumo
energetico
sarebbe stato decisamente superiore. Di conseguenza ben più
del 50% delle donne
sarebbe risultato incapace di procreare. Consideriamo poi che i soggetti dello studio Giessen si procuravano il cibo al supermercato, cioè frutti, semi e vegetali moderni e selezionati per essere il più possibile deliziosi. E per “deliziosi” intendiamo ad alto contenuto di energia. I supermercati garantiscono tutto l’anno alimenti di prima scelta, perciò i crudisti tedeschi non dovevano fare i conti con le carenze stagionali. Le popolazioni di foraggiatori, invece, non possono sfuggire ai tempi duri quando i frutti dolci, il miele o la carne degli animali da preda diventano soltanto un lusso occasionale più che un piacere quotidiano. I periodi di carestia sono all’ordine del giorno in tutte le popolazioni attuali di cacciatori-raccoglitori. La conclusione degli scienziati: “Una rigida dieta crudista non è in grado di garantire un apporto energetico adeguato” ARGOMENTI
CRUDISTI Ma entriamo più nel dettaglio e facciamo una panoramica sull’assortimento delle grossolane affermazioni crudiste in bilico tra leggenda e opinione da bar dell’Evitabile: 1. I crudisti rivendicano un maggior senso di benessere, migliori prestazioni fisiche, riduzione di dolori e di acciacchi, maggior vitalità 2. C’è chi riporta una riduzione dei sintomi dell’artrite reumatoide e fibromialgia, una minore erosione dentale e un maggior apporto di antiossidanti 3. Tutto regolarmente verificato? No, perché sono solo dichiarazioni figlie dell’aneddotica 4.
Di
certo si è trovato che i crudisti migliorano i valori del
colesterolo totale e
dei trigliceridi, ma con un contemporaneo abbassamento di HdL (The
Journal of
Nutrition, 2005) 5.
I
crudisti si appellano anche a questioni filosofiche: “Il cibo cotto è un veleno”,
concludono dopo aver sermoneggiato che
le piante contengono enzimi “vivi” o
“attivi” che, se ingeriti crudi,
agirebbero per il nostro benessere. I crudisti preparano dunque i cibi
tra i
45° e i 48°C: al di sopra di questa soglia la
“forza vitale” degli enzimi
andrebbe teoricamente distrutta. In realtà queste sostanze
vengono da loro
digerite nello stomaco e nell’intestino tenue. Per essere
precisi, vengono
denaturati dal pH
gastrico e
successivamente scissi dalle peptidasi pancreatica ed
intestinale. L’idea
di “enzima
vivo”, inoltre, non prende neppure in considerazione il fatto
che anche se
questi enzimi riuscissero a sopravvivere al nostro apparato digerente,
le loro
specifiche funzioni metaboliche risulterebbero troppo specializzate per
aver
qualche effetto su di noi. Vi eravate messi in gramaglie per celebrare
solennemente la dipartita dell’enzima? Contrizione
sprecata… 6.
I
crudisti attribuiscono il loro regime alimentare a popolazioni antiche
o
selvagge. Dato che, abbiamo visto, si è rivelato infondato ALTRI
RISCHI DEL CRUDISMO 1. Continua urinazione 2. Possibilità di ingerire tossine o agenti patogeni nei crudisti carnivori 3. Recenti studi hanno correlato il crudismo ad una bassa massa ossea nella schiena e nelle anche 4. Una dieta crudista stretta (70-100% cibi crudi, soprattutto frutta e verdura) abbatte i livelli di colesterolo totale e di trigliceridi, ma abbatte anche i livelli di HdL e alza i livelli di omocisteina a causa di una carenza di vit B12 (The Journal of Nutrition, 2005) che insieme alle vitamina B6, all’acido folico e alla betaina controllano i livelli di omocisteina (amminoacido e fattore di rischio cardiovascolare) CRUDISTI,
VEGETARIANI, ONNIVORI Tra coloro che seguono una dieta basata su alimenti cotti non si registrano differenze sul peso corporeo tra vegetariani e carnivori: quando cuociamo il nostro cibo ricaviamo da una dieta vegetariana le stesse calorie che potremmo ricavare da una dieta ricca di carne. È soltanto quando mangiamo cibi crudi che non riusciamo a garantirci un peso corporeo adeguato.
· Bocca e denti così piccoli e deboli non spiegherebbero un largo consumo di carne se non ammorbidita dalla cottura · L’alta densità calorica dei cibi cotti induce a pensare che i nostri stomaci possano permettersi il lusso di essere piccoli (la cui superficie è inferiore a 1/3 di quanto ci si aspetterebbe da un tipico mammifero del nostro stesso peso corporeo, nonché inferiore a quella del 97% degli altri primati). Le grandi scimmie ingeriscono forse il doppio del cibo che ingeriamo noi perché gli alimenti di cui si nutrono sono pieni di fibre indigeribili (circa il 30% del peso totale, contro il 5-10% presente nelle diete umane) · Al di sotto dello stomaco, l’intestino tenue è soltanto un po’ più piccolo di quanto ci si aspetterebbe in base alle dimensioni del nostro corpo, a conferma del fatto che è proprio questo tratto di intestino il sito principe per la digestione e l’assorbimento dei cibi, e gli esseri umani hanno lo stesso metabolismo basale degli altri primati in proporzione al peso · Ma l’intestino crasso, o colon, presenta meno del 60% della massa che ci si aspetterebbe da un primate del nostro peso. È nel colon che la nostra flora intestinale fa fermentare le fibre vegetali, producendo acidi grassi che vengono assorbiti dal corpo e utilizzati come fonte energetica (vedi anse e flora batterica del cieco, poco sviluppate le prime, poco efficienti i secondi). Il fatto che negli umani il colon sia relativamente piccolo significa che non siamo in grado di trattenere la stessa quantità di fibre delle grandi scimmie e dunque non possiamo utilizzare con pari efficacia le fibre vegetali come fonte di nutrimento. Questo, però, ha poca importanza. L’alta densità calorica dei cibi cotti ci affranca dal notevole potenziale di fermentazione cui devono ricorrere le grandi scimmie · Le ridotte dimensioni dell’intestino umano ci fa risparmiare il 10% di energia rispetto alle grandi scimmie · Infine, il volume dell’intero sistema digerente umano-compresi stomaco, intestino tenue e intestino crasso- è relativamente piccolo, più piccolo di qualsiasi altro primate misurato finora. Si è calcolato che il peso di questi nostri apparati corrisponde a circa il 60% di quello che tendenzialmente si osserva in un primate delle nostre dimensioni. L’apparato digerente umano nel suo insieme è molto più piccolo di quanto ci si aspetterebbe sulla base delle proporzioni dei primati ·
Le
nostre
piccole bocche, i denti e l’apparato digerente sono
assolutamente adatti alla
consistenza tenera, all’alta densità calorica, al
basso contenuto di fibre e
all’alto grado di digeribilità degli alimenti cotti · Maggior tolleranza, rispetto agli altri mammiferi, agli effetti dannosi della reazione di Maillard (tumori, infiammazione cronica…) · Rispetto alle grandi scimmie siamo meno predisposti a tollerare le tossine (inibite dalla cottura). Gli scimpanzé, per esempio, hanno nella loro dieta frutti ricchi di tannini e tossine per noi sgraditi e poco commestibili. Dato che la cottura tende a distruggere molte tossine è possibile che noi umani abbiamo evoluto un palato relativamente sensibile ad esse (molti frutti, semi e foglie consumati abitualmente dagli scimpanzé hanno per noi un sapore così cattivo che è pressoché impossibile mangiarli) · Molti altri frutti che compaiono nella dieta degli scimpanzé sono molto sgraditi al nostro palato. L’astringenza, quella sensazione di allappamento provocata dai tannini e da poche altre sostanze, si ritrova spesso nei frutti di cui si nutrono gli scimpanzé. L’astringenza è indotta dalla presenza di tannini che, legandosi con le proteine, le fanno precipitare. La nostra bocca di norma viene lubrificata dalle mucoproteine presenti nella saliva, ma poiché un’alta densità tanninica le fa precipitare, finiamo per ritrovarci letteralmente con la lingua e la bocca asciutte: la famosa “lingua felpata” che proviamo dopo aver mangiato una mela acerba o dopo aver bevuto un vino particolarmente tanninico. Si ha la stessa sensazione assaggiando alcuni frutti amati dagli scimpanzé · Se ci fossimo evoluti al consumo di carne cruda, saremmo resistenti alle tossine prodotte dai batteri della carne. Anzi, sarebbe proprio l’adattamento alla cottura che ci avrebbe fatto ereditare la vulnerabilità ai batteri della carne cruda · Sicuramente il crescente consumo di carne è stata la discriminante nell’evolverci dagli autralopitecini che mangiavano ancora poca carne, ma molti vegetali (avevano ancora grossi intestini per favorire la digestione di grandi quantitativi di fibre). Ma si pensa che il consumo di carne abbia avuto sui nostri corpi un impatto meno determinante rispetto a quello generato dagli alimenti cotti. Viviamo molto male con una dieta cruda e nessuna cultura adotta con regolarità un regime alimentare crudista, mentre gli adattamenti del nostro organismo spiegano perché non riusciamo ad utilizzare con efficacia gli alimenti crudi. Più che carnivori, siamo cuochi · PIÙ TEMPO LIBERO. Una ricerca pubblicata su PNAS (2011) ci dice che la lavorazione e la cottura dei cibi hanno liberato per i nostri antenati una quantità smisurata di tempo. Si è calcolato che, in base alla massa corporea e ai tempi di masticazione negli altri primati, l’uomo dovrebbe mangiare per il 48 % della giornata, mentre lo fa solo per il 5% del suo tempo (lo scimpanzé, per confronto, mastica per il 37% del tempo). INSOMMA,
PERCHÉ CUOCERE? Gli alimenti innaturalmente teneri alla base della dieta umana hanno dato alla nostra specie un vantaggio energetico, risparmiandoci parecchio di quel duro lavoro richiesto dalla digestione. Dalla gelatinizzazione dell’amido alla denaturazione delle proteine ai costi di digestione, assorbimento e assimilazione della carne, possiamo trarre la medesima lezione: LA COTTURA FORNISCE CALORIE. Il cibo cotto è migliore di quello crudo perché la vita è essenzialmente una questione di energia. Dunque, da un punto di vista evolutivo se la cottura comporta una perdita di vitamine o dà origine a un piccolo numero di sostanze tossiche a lungo termine (prodotti di Maillard), tale effetto è relativamente trascurabile in confronto all’impatto di un maggior apporto calorico. La cottura è infatti stata definita come “un metodo tecnologico per esternalizzare una parte del processo digestivo” (Aiello e Wheeler, 1995) Riassumendo, i tre motivi che giustificano la cottura e che portano ad un maggior introito energetico (anche per risparmio energetico):
BREVI
SULLA DIGESTIONE Il nostro apparato digerente opera attraverso due processi distinti:
Ma
torniamo ai tre motivi che giustificano
la cottura… GELATINIZZAZIONE
DEGLI AMIDI L’amido cotto è molto ben digerito, fino al 95% (al termine dell’ileo) per avena, frumento, patate, banane platano, banane, cornflakes, pane bianco. I tassi di digeribilità ileale dell’amido crudo sono molto più bassi: 71% nel caso dell’amido di frumento, 51% per le patate e un misero 48% per l’amido crudo delle banane platano e delle cosiddette banane da cuocere. L’amido crudo in molto casi viene digerito del 50% rispetto all’amido cotto. L’aumento di digeribilità dell’amido indotto dalla cottura è dovuto soprattutto al processo di GELATINIZZAZIONE. Questo processo di esplosione dei granuli di amido (fitti “pacchettini” di glucosio lunghi meno di un decimo di millimetro) avviene durante la cottura a patto che ci sia un po’ d’acqua. Più l’amido cuoce, più gelatinizza, meglio verrà digerito e più energia fornirà. Questo effetto si rileva facilmente con le analisi del sangue. Entro 30 minuti dall’ingestione di glucosio puro la sua concentrazione nel sangue sale drasticamente per poi tornare ai livelli standard in poco più di un’ora. Se si consuma farina di granoturco cotta si ottiene un effetto quasi identico. Ma dopo un pasto a base di farina di granoturco cruda, la glicemia resta costantemente bassa, raggiungendo un picco inferiore a un terzo del valore registrato per la farina cotta DENATURAZIONE
DELLE
PROTEINE Gli effetti della cottura sulle proteine sono ancora oggetto di dibattito. Studi recenti sulla digestione delle uova stanno iniziando a risolvere la questione, dimostrando per la prima volta che le proteine cotte vengono digerite in modo molto più completo rispetto a quelle crude. Le attuali popolazioni di cacciatori-raccoglitori le preferiscono cotte, come nel caso degli Yahgan della Terra del Fuoco o gli aborigeni australiani. Si sono studiate le uova con lo stesso metodo utilizzato negli studi per la digeribilità dell’amido, cioè raccogliendo i residui di cibo dalla parte terminale dell’intestino tenue, il cosiddetto ileo. Qualunque proteine arrivasse qui non ancora digerita, non aveva più speranze di esserlo, d’ora in poi. Abbiamo visto che nell’intestino crasso i batteri e i protozoi digeriscono le proteine a proprio uso e consumo. RISULTATO:
Cosa rende le proteine cotte più
digeribili? LA DENATURAZIONE, un processo indotto dal calore. La denaturazione si verifica quando i legami interni di una proteina si indeboliscono, facendo sì che la molecola si apra. Di conseguenza, la molecola proteica perde la sua originaria struttura tridimensionale e dunque la sua funzione biologica naturale. La sua struttura aperta la espone all’azione degli enzimi digestivi La cottura ha un effetto molto potente anche sul materiale responsabile della sua consistenza più o meno resistente: IL TESSUTO CONNETTIVO. Le carni di animali selvatici sono molto più povere di grassi e ricche di collagene rispetto alle carni degli animali da macello dell’epoca postagricola. Il suo principale costituente, il COLLAGENE, tanto è resistente a crudo, tanto si ammorbidisce alla cottura e basta arrivare ai 60-70°C (sua temperatura di denaturazione) per un certo tempo che si trasforma in gelatina. Con la cottura il collagene si “rilassa” e “libera” le fibre muscolari che contengono invece proteine a valore nutrizionale molto alto, e possono venire così assorbite.
DENATURAZIONE:
NON SOLO COTTURA… IL CALORE è soltanto uno dei tanti fattori che favoriscono la DENATURAZIONE. Altri tre sono 1. l’acidità 2. il cloruro di sodio 3. l’essiccamento IL PH DELLO STOMACO è molto basso, inferiore a 2. Un’acidità così elevata ha almeno tre funzioni 1. uccide i batteri che si accompagnano al cibo 2. attiva l’enzima digestivo pepsina 3. denatura le proteine Inoltre la marinatura, l’aceto e il succo di limone se lasciati agire per un periodo di tempo sufficiente possono contribuire alla denaturazione delle proteine nella carne, nel pollame e nel pesce. Idem
per la salatura e
l’essicazione CAROTE
E BETA-CAROTENE: IL RUOLO DELLA
COTTURA Il beta-carotene
è un nutriente prezioso per il nostro corpo e la
carota ne è particolarmente ricca. Dal
suo metabolismo nasce la vitamina A. Assumere
beta-carotene
è dunque semplice.
Basta mangiare carote a iosa. Non è proprio così,
però. Questo microelemento è
sepolto nei cromoplasti e difeso da
una doppia barriera membranosa. È prima necessario rompere
la parete cellulare
esterna di cellulosa e pectina, prima che nel nostro intestino possa
venire
assorbito. Gli studi sono oramai inequivocabili: solo danneggiando
meccanicamente e rammollendo le carote con la cottura
il beta-carotene e gli altri
carotenoidi sono più bioaccessibili (van
het Hof, West, Weststrate, & Hautvast, 2000;Hedrén,
2002;
Lemmens et al., 2011 e 2014 ). E in misura significativa.
Creando un
ambiente che
simula la digestione grazie alla
miscela di enzimi, acido cloridrico e un pH uguale a quello dello
stomaco prima
e dell’intestino poi, Hedrén
(2002)
ha stimato che una carota cruda tagliata in pezzi eroga un 3% di beta-carotene
bioaccessibile. Riducendo le carote in polpa omogeneizzata la
percentuale sale
al 21% e cuocendola si sale al 27%. Tra i pochi studi realizzati in
vivo,
citiamo quello condotto su un gruppo di giovani donne da Rock
e risalente al 1998 (The
Journal of nutrition): il
ricercatore ha trovato che cuocere le carote (ma anche gli spinaci)
determina
un aumento di beta-carotene nel
plasma di tre volte rispetto al consumo di carote crude. Lo studio ha
inficiato
l’idea che la cottura alzi in modo significativo
l’isoforma cis- del beta-carotene (presente naturalmente in
forma trans- e assorbito in
maniera più efficiente della forma cis-,
con una ridotta capacità di
trasformarsi in vitamina A e una capacità antiossidante
minore): la cottura
alza comunque i livelli plasmatici sia totali che
dell’isoforma trans- di beta-carotene e molto più
beta-carotene diventa accessibile al
nostro corpo. TAGLIUZZARE
E MASTICARE PER BENE Dopo la cottura non sottovalutiamo l’importanza del trattamento meccanico, che sia affidato alla masticazione o sia effettuato con attrezzatura da cucina (prima o dopo la cottura poco importa). L’importante è il risultato, cioè rompere la parete cellulare. Un altro studio recente (J Agric Food Chem,. 2011) ha ratificato le regole auree per la migliore assunzione di carotenoidi: 1. trattamenti termici intensi 2. trattamenti termici meno aggressivi e di media durata abbinati a intensi trattamenti meccanici NON
È FINITA QUI… Non basta cuocere e sminuzzare le carote per estrarre più carotenoidi. Serve anche aggiungere dei grassi. Ma questa è un’altra storia. E magari oggetto di una prossima trattazione… W
LA SALSA! Stessa storia per il licopene, quella altrettanto preziosa molecola antiossidante tassonomicamente iscritta nel club dei carotenoidi e ben rappresentata nel pomodoro. La sua biodisponibilità è fortemente condizionata dalla cottura (Crit Rev Biotechnol. 2000; Br J Nutr. 1998;). Una salsa o un concentrato di pomodoro regalano dalle due alle tre volte licopene in più rispetto al pomodoro fresco (http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/,2013). Rompere le membrane cellulari con la cottura fa la differenza anche col pomodoro. CONCLUSIONI È stata lunga, ma ce l’ho fatta. Forse sbagliando, ma ho voluto ancora una volta mettere una barriera contro la rovinosa caduta di mode alimentari paleo-asfittiche che vorrebbero costringerci nel guado della superstizione. Mi piacerebbe che questa fosse davvero l’ultima supercazzola sgranata da un rosario liso. Ma me ne aspetto ancora tante altre. L’antidoto? Restare sempre aggrappati alla ringhiera della scienza. Senza quell’appiglio, si precipita nel vuoto. BIBLIOGRAFIA Richard Wrangham, “L’intelligenza del fuoco”- Bollati Boringhieri 2014 Ann Nutr
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of a long-term raw food diet on
body weight and menstruation:
results of a questionnaire survey.
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Nov 21. Long-term
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Garcia AL1, Koebnick C, Dagnelie PC, Strassner C, Elmadfa I, Katz N, Leitzmann C, Hoffmann I. J Nutr. 2005 Oct;135(10):2372-8. Long-term
consumption of a raw food diet is
associated with favorable
serum LDL cholesterol and triglycerides but also with elevated plasma
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Koebnick C1, Garcia AL, Dagnelie PC, Strassner C, Lindemans J, Katz N, Leitzmann C, Hoffmann I. Proc Natl
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Porrini M1, Riso P, Testolin G. http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/06/10/crudo-non-e-sempre-meglio/
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